DA ROMA ALLA TERZA ROMA
XXXV SEMINARIO INTERNAZIONALE DI
STUDI STORICI
Campidoglio, 21-22 aprile 2015
Università
di Roma “Tor Vergata”
SCHEMI ROMANI DELL’APPARTENENZA
E MODELLI DI RESISTENZA NELLA TRADIZIONE
CIVILISTICA
SOMMARIO: 1. Diritto romano, tradizione civilistica e
schemi giuridici dell’appartenenza. –
2. Forme di resistenza al paradigma borghese nel
diritto russo. – 3. Forme di resistenza al paradigma borghese nel
diritto cinese. – 4. Considerazioni
conclusive.
Gli studiosi di diritto romano e di
storia del diritto hanno da tempo svelato la carica ideologica del paradigma
borghese della ‘proprietà’ fissatosi nei codici civili di tradizione
romanistica. In particolare, la ripulitura concettuale ha investito la presunta
natura “individualistica” ed “unitaria” dello schema giuridico della proprietà
romana, a favore di un quadro concettuale che ne imponga una
contestualizzazione nei modelli sociali dell’antichità, del medio evo e
dell’età moderna, facendone risaltare la complessità di schemi tra loro
interagenti nei quali le forme giuridiche dell’appartenenza non sarebbero
riducibili ad unum, ma dimostrerebbero, oltre che sul piano dei nomina
iuris anche sul piano dei regimi giuridici, differenze e particolarità[1].
D’altronde,
non è casuale che il nazionalsocialismo tedesco, nel suo attacco al diritto
romano come diritto straniero[2],
imputasse alla proprietà romana un eccesso di individualismo che in realtà non
era romano, ma caratteristica propria del paradigma proprietario della
pandettistica tedesca dell’ottocento che si era contrapposta ai dominia
medievali[3].
La critica
condizionò delle reazioni importanti, come quella di Francesco De Martino, in
un celebre lavoro del 1941, orientato a criticare con argomenti seri il
presunto “individualismo” del diritto romano[4].
Al contrario,
la critica mossa da Karl Marx alla proprietà individuale come paradigma dei
codici civili borghesi, non sembra condizionata da una proiezione del modello
borghese sulle forme di appartenenza romane su cui quello era stato costruito
per astrazione[5].
Il
paradigma proprietario del modello codificato nell’art. 544 del Codice Francese
del 1804 («La propriété est le droit de jouir et disposer des choses de la
manière la plus absolue…») sembra ancora non liberarsi della duale
interpretazione dell’istituto, da un lato quella ereditata dall’età medievale,
tutta costruita sulle utilitates della res frugifera e,
dall’altro lato, quella indotta dalla rottura dell’antico regime e tutta
rivolta verso l’assolutezza del dominio, rispondendo in pieno alle esigenze di
circolazione e di libera destinazione dell’uso economico dei beni produttivi
della società borghese[6].
Maggiore astrazione e assolutizzazione è espressa
nello schema pandettistico della proprietà, che trova espressione nel par. 903
del BGB tedesco del 1900 («Der Eigentümer einer Sache kann, soweit nicht das
Gesetz oder Rechte Dritter entgegenstehen, mit der Sache nach belieben
verfahren und Andere von jeder Einwirkung ausschließen»).
Il diritto
romano, al contrario, esprime una differenziazione terminologica e di regime
nell’àmbito degli schemi giuridici dell’appartenenza: la possessio dell’ager
publicus, il meum esse ex iure Quiritium, l’in bonis esse, le
servitù prediali, l’usufrutto, l’uso, l’abitazione, la possessio vel
ususfructus sui fondi provinciali, l’enfiteusi, la superficie. I giuristi
romani parlano altresì di duplex dominium, di proprietas e di possessiones.
La
tradizione romanistica dell’età medievale vi aggiunge nuove forme di
appartenenza, come ad es. il feudum, non rompendo però la gabbia
concettuale di tradizione romanistica, che resta sostanzialmente acconcia a
dominare la nuova realtà dell’appartenenza della terra[7],
arricchendone i contenuti concettuali, distinguendo tra dominium directum
e dominium utile o allargando l’elenco degli iura in re aliena.
Si tratta di un quadro ricchissimo di costruzioni giuridiche attraverso le
quali i giuristi della tradizione civilistica fondata sul diritto romano non
operano sempre dallo stesso angolo di visuale, a volte partendo dalla natura
delle res, che per così dire ne indica la funzione economica di uso
(foreste per legnatico, campi per agricoltura, pascoli per i prati, cave per
estrazione materiali ecc.), accentuando la varietà delle utilitates rerum,
altre volte proiettando il paradigma soggettivo del “potere” dell’uomo sulla
cosa, che può imprimere, con maggiore o minore intensità, la destinazione d’uso
alla cosa. Si potrebbe al riguardo parlare di modello ‘cosale’ per la prima
prospettiva e di modello ‘potestativo’ per la seconda.
I codici
civili dell’ottocento, ed in primis il Codice civile francese del 1804 e
il Bürgerliches Gesetzbuch tedesco del 1900, hanno determinato una forte
selezione semplificatrice di questa ricchissima tradizione concettuale,
consegnando al futuro un modello paradigmatico della proprietà individuale,
attraverso il quale rileggere tutta questa realtà della tradizione civilistica
precedente, conservando quegli schemi giuridici dell’appartenenza che potevano
con tale modello coordinarsi ed escludendo quelli che ne confliggevano
irrimediabilmente per la loro natura irriducibile in una prospettiva di potere
assoluto sulla cosa.
Questo,
però, non significa l’estinzione di questi schemi giuridici dell’appartenenza
che non sono stati inclusi nei Codici civili, o il loro oblio, in quanto
proprio la resistenza di filoni consuetudinari del diritto civile
post-codificato ha conservato – con profonde difficoltà di inquadramento da
parte dei giuspositivisti – la loro vigenza nel diritto attuale, come corpi
estranei al paradigma proprietario oppure ad esso comunque riannodati, con una
certa forzatura interpretativa[8].
La nostra tradizione giuridica ha spesso dovuto fare i conti con
queste realtà, alle quali non si adatta la prospettiva del dominium e più
in generale quella del “mio”. Per fare alcuni esempi, a Roma antica, l’ager
gentilicius e l’ager compascuus[9]; oggi, si potrebbe menzionare la
problematica degli usi civici[10].
D’altra parte, quando per queste
realtà e le altre, di diversa struttura e funzione, nelle quali si venne
affermando una titolarità giuridica separata da un potere amplissimo esercitato
dal singolo sul bene (l’ager vectigalis del popolo o dei municipi o la possessio vel ususfructus del privato
sulle terre provinciali), emergendo la necessità di dare un contenuto al potere
del singolo sul bene, l’unica alternativa valida si dimostrò quella di elencare
le diverse facoltà esercitate sulla cosa. Si pensi ad esempio all’uti frui
habere possidere sulle terre provinciali, reso ancora da Gaio in termini di
possessio vel ususfructus (Gai.
II.7)[11].
Questa
ricca e complessa tradizione concettuale degli schemi giuridici
dell’appartenenza penetra con forza e si arricchisce a sua volta con la storia
giuridica della Russia e della Cina. Gli schemi giuridici dell’appartenenza
romani e della tradizione romanistica vengono assunti come chiave
interpretativa della realtà delle nuove forme di destinazione e di sfruttamento
(individuale o collettivo) della terra.
Nell’Impero
Russo, la resistenza della servitù della gleba e la forza della titolarità
della terra allo Car’ (царь) impongono soluzioni e forme di appartenenza adeguate
alle particolarità imperiali e feudali degli strumenti di concessione.
Si pensi al
ricorso nella tradizione russa prerivoluzionaria[12]
della distinzione tra titolarità formale e diritto d’uso (пользование
pol’zovanije), e
l’introduzione di una forma di appartenenza collettiva dei contadini
(община obščina) nella Riforma
rurale del 1861 con l’abolizione della servitù della gleba[13].
Si potrebbe
erroneamente pensare che l’apertura dei Paesi socialisti, in primis la
Russia, al modello economico capitalistico[14], abbia determinato, nel nuovo diritto russo
codificato, un netto superamento degli schemi giuridici della appartenenza
della fase socialista ed una recezione acritica degli schemi dell’appartenenza
dei modelli codificati esistenti, schemi che in molti ordinamenti giuridici
afferenti sia al sistema romanistico sia a quello di common law si sono
dimostrati idonei a regolare lo sfruttamento della terra come bene produttivo
nella forma della proprietà individuale[15].
In realtà,
se si segue l’ampio dibattito della dottrina giuridica russa nella fase
sovietica, non si avrà difficoltà a scorgere la resistenza concettuale delle
categorie della tradizione romanistica ed una loro riconsiderazione critica
rispetto al nuovo modello della cd. “proprietà” socialista[16].
In particolare, il momento di tensione indotto da una forma di appartenenza
caratterizzata dalla titolarità esclusiva al “popolo intero dell’URSS” dei beni
produttivi e dalla centralità nel diritto civile sovietico dalla cd. proprietà
socialista, ha innestato una feconda discussione nella dottrina sovietica sulla
nozione di “proprietà”, al fine di approfondire le particolarità di regime che
rendessero la nuova forma di appartenenza irriducibile al paradigma
proprietario della tradizione prerivoluzionaria. Il dibattito russo in materia
nel cinquantennio postrivoluzionario assume connotazioni arricchenti per le
prospettive dogmatiche della tradizione civilistica, sebbene nelle intenzioni
di parte della dottrina giuridica russa con esso si voleva realizzare una
insanabile rottura proprio con tale tradizione.
È stato ben
evidenziato in dottrina che àmbito proficuo di questa discussione è
rappresentato dalla forma giuridica di appartenenza all’impresa dei beni
produttivi, ed in primis della terra, rispetto alla titolarità della
stessa alla proprietà dello Stato. Le diverse posizioni chiarificatrici di tale
complessa questione hanno evidenziato nella dottrina russa il ricorso alle
categorie della proprietà pubblica (intesa come proprietà dello Stato) e
diritto d’uso (dell’impresa), o proprietà pubblica dello Stato e diritto di
amministrazione operativa dell’impresa, o di trust inglese (la cui
particolarità sovietica, sarebbe data dalla instabilità e subordinazione del trest
sovietico nei confronti dello Stato [Martynov]), del duplex dominium,
“eminente” dello Stato ed “utile” dell’impresa (Martynov, Magaziner), un dominium
sui generis (Pasukanis), possesso[17].
Dal punto
di vista storico, mi sembra significativo che la maturazione all’interno di questo
dibattito di una forte critica al paradigma individualistico della proprietà
quale codificato nei diritti borghesi, parta dal presupposto concettuale che
«il diritto di proprietà socialista dello Stato non può ridursi alle facoltà di
possedere, usare e disporre, in quanto diritto ‘indecomponibile e invariabile’»
(Karass)[18].
Come si è
visto nel precedente paragrafo, si tratta di problemi ben presenti allo storico
del diritto che ha, oramai da tempo, acquisito un occhiale più ampio del
problema della ‘proprietà’, nell’ottica del rapporto tra paradigma unitario ed
astratto e forme giuridiche dell’appartenenza con esso interagenti che talvolta
vi sono attratte come forme di dominia, ed altre forme giuridiche
dell’appartenenza che non subiscono questa attrazione, rientrando nello schema
degli iura in re aliena oppure in forme di possessiones. Tale
ipotizzata terzietà, rispetto ai dominia da una parte e agli iura in
re aliena dall’altra, si riscontra nel dibattito storiografico sulle forme
di appartenenza in relazione a quelle forme collettivistiche di sfruttamento
della terra nelle quali è assente qualsiasi facoltà dispositiva. Qui si
potrebbe porre in discussione la stessa congruità di espandere il paradigma
proprietario in termini di “proprietà collettiva”, in quanto – ed è notazione
già presente in Karl Marx – in essa vi è un ribaltamento della prospettiva
soggettivistica (sono proprietario perché la cosa è mia), in favore
dell’appartenenza del soggetto alla comunità a cui spetta il bene produttivo
(sono civis Romanus e quindi rivendico il meum esse ex iure Quiritium
su una porzione di ager Romanus)[19].
Il dato più
significativo nel diritto sovietico, in relazione allo schema giuridico della
appartenenza e gestione dei beni produttivi dello Stato da parte dell’impresa,
è la questione – come abbiamo visto – se esso rappresenti uno schema giuridico
nuovo, non facilmente inquadrabile nelle categorie romanistiche, a contenuto
minore rispetto al diritto di proprietà, oppure se esso non incarni un nuovo
tipo di ius in re aliena.
Storicamente,
quindi, la caduta dell’URSS e la nuova Costituzione della Federazione Russa
(1993), il Codice civile della Federazione Russa (1994; con continue riforme ed
aggiustamenti) ed il nuovo Codice fondiario (2001) non sembrano realizzare una
netta cesura concettuale, idonea a cancellare dal punto di vista degli schemi
giuridici dell’appartenenza la storia giuridica del periodo sovietico delle
forme di appartenenza, sebbene in essa sia indubitabile una rinnovata vitalità
della “proprietà individuale”, rispetto alla proprietà pubblica e
municipale.
A leggere
gli artt. 8 e 35 della Cost.Fed.Rus.[20]
e gli artt. 209 ss. del nuovo CcFed.Rus. si ha quindi l’impressione che la
scelta politica non sia quella di ricollocare il paradigma della “proprietà
individuale” al centro degli schemi di appartenenza dotati di maggiore
intensità, ma quella di ricollocarla in chiave, quanto meno paritaria, rispetto
alle forme della proprietà pubblica (intesa dello Stato) e municipale. Si ha
cioè una forte interpretazione unificante sul piano del paradigma proprietario,
al di là poi del titolare del diritto stesso (Stato, Municipio o privato
cittadino), in termini di elenco delle sue facoltà di possedere, usare e
disporre del bene (владения, пользования,
распоряжения;
vladenija, pol’zovanija, rasporjaženija), degli schemi di appartenenza
senza però annullarne le diverse forme che, nella odierna società russa, sono
caratterizzate da regimi giuridici non unitari.
Questo
processo indotto dalla codificazione iniziata nel 1994, nell’àmbito dei
rapporti di appartenenza, ha coinvolto non soltanto lo schema giuridico
fondamentale della proprietà individuale, ma anche un altro schema giuridico
fondamentale, cioè gli iura in re aliena[21].
Si deve,
infatti, segnalare il ricorso, anche quantitativamente significativo, allo
schema giuridico del diritto reale su cosa altrui, al fine di dare veste a
tutta una serie di rapporti sia della realtà urbana che di quella agricola
della Russia. Si pensi: al possesso vitalizio ereditario
(право
пожизненного
наследуемого
владения; pravo požiznennogo
nasleduemogo vladenija) di un lotto di terreno di proprietà pubblica o
municipale (artt. 265-267 CcRus.), che ai sensi dell’art. 21 del Cod. Fond. del
2001 è tutelato nelle forme preesistenti al Codice fondiario, ma non è più
permesso per il futuro[22],
con una conseguente ri-espansione della proprietà dello Stato o della
municipalità; al diritto d’uso perpetuo di lotti di terreno
(право
постоянного
пользования; pravo
postojannogo pol'zovanija) ai sensi degli artt. 268-269 del CcRus. e al
diritto d’uso (право
пользования; pravo
pol'zovanija) del lotto di terreno da parte del proprietario dell’immobile
costruito sullo stesso (art. 271 CcRus.). Tali schemi di appartenenza giuridica
della terra sono attratti negli iura in re aliena, con la
caratterizzazione comune della esclusione ai titolari di essi di qualsiasi
potere dispositivo sul lotto di terreno (art. 264 co. 3 CcRus.).
Questa operazione
comporta conseguenze non meramente qualificatorie e formali, ma anche
sostanziali e solleva questioni non esclusivamente dogmatiche, ma anche di
impatto di tali schemi nella realtà.
La
prospettiva descrittiva del contenuto del potere sulla cosa con la tecnica
degli elenchi (владение и
пользование; vladenije
i pol'zovanije), evoca al giurista abituato alle categorie proprie della
tradizione civilistica fondata dal diritto romano, una scelta di campo operata
dal legislatore russo a favore dello schema giuridico del paradigma
proprietario e degli iura in re aliena[23].
È da evidenziare innanzitutto
l’angolo di visuale che tradisce l’evidente prospettiva proprietaria (dello
Stato, del municipio o del privato) che nella Costituzione Russa, nel nuovo
Codice Civile russo e nel Codice fondiario russo trova unitaria espressione in
termine di facoltà elencate come contenuto del potere del proprietario (diritti
di possedere, usare e disporre; права владения,
пользования
и
распоряжения;
prava vladenija, pol’zovanija rasporjaženija). Nel diritto russo
post-sovietico sembrerebbe, quindi, prevalere un paradigma proprietario
coerente alla prospettiva del modello codificato nell’art. 544 Codice Napoleone
del 1804.
Arrestarsi
a questo dato, però, significherebbe tradire il senso e lo sforzo di una
interpretazione del diritto russo come calato in un rapporto di dialogo
costruttivo con la tradizione civilistica fondata sul diritto romano. In
primis, in quanto proprio la netta divergenza che nel diritto di uso dei
lotti di terreno emerge in relazione allo schema della titolarità delle terre
in godimento rispetto ad altri diritti di godimento su cosa altrui, deve già
mettere in guardia da facili e pericolosi accostamenti.
È quindi, a
mio avviso, necessario ponderare con attenzione la disciplina di alcuni
istituti dell’appartenenza della terra in Russia, al fine di evidenziare
profili di essa che possano permetterci di cogliere con maggiore concretezza la
struttura e la funzione di questi diritti. In tal modo, si potrà, a mio avviso,
con maggior senso realistico cogliere l’adeguatezza dello schema giuridico
prescelto dal codificatore russo nella sua scelta di guardare al fenomeno non
esclusivamente attraverso un paradigma unitario della proprietà.
Negli
ultimi decenni, prima timidamente e poi in modo sempre più marcato, l’apertura
della società cinese all’economia occidentale[24] ha comportato il ricorso sempre più evidente a
schemi giuridici estranei al diritto tradizionale cinese e propri della
tradizione civilistica fondata dal diritto romano, schemi che in molti
ordinamenti giuridici afferenti sia al sistema romanistico sia a quello di common
law si sono dimostrati idonei a regolare lo sfruttamento della terra
realizzato nella forma di produzione capitalistica[25].
Questa
utilizzazione in Cina, nell’àmbito dei rapporti di appartenenza, ha coinvolto
non soltanto lo schema giuridico fondamentale della proprietà privata, ma anche
un altro schema giuridico fondamentale, cioè gli iura in re aliena[26].
A tale
riguardo, viene solitamente evidenziata l’importanza in Cina, ai fini di un
tale processo di transizione, del ricorso alla proprietà privata[27], per i mutamenti che essa può indurre all’interno
della tradizionale dialettica tra proprietà pubblica e c.d. proprietà
collettiva.
A latere di questo importante processo, si deve però
segnalare il ricorso, anche quantitativamente significativo, allo schema
giuridico del diritto reale su cosa altrui, al fine di dare veste a tutta una
serie di rapporti sia della realtà urbana che di quella agricola della Cina
odierna.
Ciò mi
sembra evidenziarsi con particolare forza proprio nella recente legge cinese
sui diritti reali del 2007, nella quale tutta una serie di rapporti conseguenti
ai movimenti di inurbamento ed all’aumento di popolazione nelle città e allo
sfruttamento delle campagne, rapporti specifici della società cinese, vengono
inglobati entro tale schema giuridico della nostra tradizione civilistica. Questa
operazione comporta conseguenze non meramente qualificatorie e formali, ma
anche sostanziali e solleva questioni non esclusivamente dogmatiche, ma anche
di impatto di tali schemi in realtà ad essi estranee.
Così, ad
esempio, la nuova Legge cinese sui diritti reali ascrive tra i diritti reali di
godimento su cosa altrui il diritto di uso dei fondi destinati a costruzione
(artt. 135-151)[28],
il diritto di uso dei fondi a destinazione abitativa (152-155)[29]
e il diritto di gestione dei fondi in concessione (124-134)[30].
Prima del
1978, il sistema fondamentale dell’organizzazione economica dei villaggi
agricoli in Cina è quello della «comune popolare». Il motto «a ciascuno
secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro» viene attuato
attraverso la distribuzione del lavoro nelle «squadre di produzione». In questa
prima fase e secondo le varie situazioni locali, la comune popolare si divide
in due livelli (comune e squadra di produzione) o in tre livelli (comune
popolare, brigata di produzione, squadra di produzione).
Il 1978
rappresenta il primo momento di rottura col modello collettivo di sfruttamento
della terra realizzato attraverso lo strumento del gruppo di lavoro. Diciotto
famiglie contadine del villaggio di Xiaogang, nel distretto di Fengyang, si
accordano segretamente al fine di coltivare per concessione le terre della
collettività non più secondo il modello della squadra di produzione, ma per
famiglie. Ad una organizzazione della produzione agricola caratterizzata dalla
forma collettiva di sfruttamento della terra, si affianca, per una istanza
della componente contadina, un modello di sfruttamento individuale della terra
centrato sulla famiglia[31].
Quattro
anni dopo, nel 1982, il documento n. 1 del Comitato Centrale (CC) del Partito
Comunista Cinese (PCC) include esplicitamente la concessione per famiglia della
gestione dei fondi delle collettività nel “sistema socialista di produzione”.
Nel 1983, nel documento n. 1 del CC del PCC, si riconosce esplicitamente che il
sistema di produzione in concessione per famiglie «è una grande creazione
dei contadini cinesi sotto la guida del partito, è lo sviluppo nuovo della
teoria marxista, sulla cooperazione agricola, nella pratica del nostro Paese».
Nel gennaio del 1984, se ne auspica, per altro, una stabilizzazione ed un
perfezionamento.
Ad una
forma collettiva di sfruttamento della terra dei villaggi, si affianca e mano a
mano prende sempre più piede una forma di sfruttamento della terra del
villaggio facente perno su una singola famiglia dello stesso. Il movimento che
concretamente e dal basso modifica strutturalmente i meccanismi di produzione
della terra sembra accolto col tempo nelle scelte del CC del PCC, sensibile ai
problemi di sostentamento dei contadini nelle campagne. Esso, però, emerso da
concrete istanze contadine e affermatosi per consuetudine come forma di
produzione agricola in concessione per famiglie, non trova inizialmente una
precisa veste giuridica.
Un primo preciso
riconoscimento nel diritto scritto cinese della concessione per famiglie della
gestione dei fondi agricoli si ha con la Costituzione del 1982.
Il I comma
dell’art. 8 della Costituzione della Repubblica popolare cinese
(1982) sancisce che «le comuni popolari dei villaggi, le società cooperative
per la produzione agricola e le altre forme di economia cooperativa per la
produzione, i servizi, il credito e il consumo, sono economie collettive delle
masse lavoratrici socialiste. I lavoratori che partecipano alle organizzazioni
economiche collettive di villaggio hanno il diritto, nei limiti della legge, di
gestire quei fondi e quelle colline [loro assegnati per uso individuale], di
gestire attività secondarie familiari e di allevare animali [loro assegnati per
uso individuale].»
Tale
produzione viene tutelata in chiave di diritto del lavoratore «che partecipa
alle organizzazioni economiche collettive dei villaggi» di gestire i fondi e le
colline e di gestire «attività secondarie familiari», in una prospettiva di
sussidiarietà con le altre forme di produzione agricola realizzate in chiave di
comune popolare e di società cooperativa.
Già nel
1993, il primo comma dell’articolo 8 della Costituzione viene
modificato, includendo espressamente la «produzione in concessione per
famiglie» come forma di economia cooperativa di produzione.
Dal 1999
l’articolo riconosce un sistema di gestione articolato in due livelli
integrati, uno unitario e uno decentrato, che si fonda sul sistema di
concessione per famiglie.
I Principi
generali del diritto civile del 1986, al secondo comma dell’art. 80,
espressamente riconoscono la protezione dei: «diritti dei cittadini o delle
collettività di gestione dei fondi in concessione che appartengono alle
collettività o appartengono allo Stato ma sono utilizzati dalle collettività…».
Nello
stesso anno la Legge sulla amministrazione del suolo, all’art. 12,
afferma in particolare che: «Le collettività o gli individui che
gestiscono i fondi in concessione hanno il dovere di tutelare e ragionevolmente
usare i fondi, secondo la destinazione di uso stipulata nel contratto di
concessione. Il diritto di gestione dei fondi in concessione è protetto dalle
leggi».
Nella
riforma del 2004 di detta Legge, il nuovo art. 14 aggiunge la durata
trentennale della concessione e l’obbligo di stipulare un contratto di
concessione dove si stabiliscano i doveri e i diritti reciproci delle parti[32].
Nel 2002 è
stata promulgata la Legge sulla concessione dei fondi dei villaggi[33]. Salvo quanto si
dirà in seguito su alcune più specifiche norme di questa legge, data la sua
evidente centralità in materia, ricordo ora alcuni importanti principi in essa
sanciti. Innanzitutto quello del fondamento contrattuale della gestione dei
fondi in concessione (art. 3)[34]. Da segnalare, poi quello del sistema del doppio
tipo di contrattazione in concessione a seconda della natura della terra. Per
quella coltivabile, direttamente il contratto di concessione con i contadini;
per la terra incolta e deserta (i c.d. quattro incolti) è possibile, invece,
ricorrere a contrattazione esterna attraverso licitazione privata, asta
pubblica o aperta negoziazione[35].
A questi si
aggiungano: il principio di stabilità del rapporto, il divieto di modificare la
natura della proprietà della terra agricola una volta sia data in concessione e
l’indisponibilità del bene (art. 4)[36]; la necessità di rispettare in detto tipo di
contratti la trasparenza, l’eguaglianza e la correttezza (art. 7)[37].
Si prevede
poi la possibilità per il contraente concessionario di trasferire il proprio
diritto di gestione a titolo oneroso (art. 10)[38].
Segnalo poi
le obbligazioni imposte nella legge al contraente concessionario di non
alterare la destinazione d’uso della terra in concessione ed in particolare il
divieto di realizzare sul suolo costruzioni che non abbiano finalità agricole
(art. 17)[39].
La
procedura che la collettività deve seguire oltre che essere informata ai
principi sopra ricordati della correttezza e della ragionevolezza (art. 18-2),
deve trovare l’accordo di almeno due terzi (2/3) dell’assemblea dei contadini
del villaggio o dei rappresentanti degli stessi (art. 18-3)[40].
La durata
della concessione si fissa in 30 anni per i fondi agricoli, tra 30 a 50 per il
pascolo, tra 30 e 70 per le foreste (art. 20).
Per il
contratto de quo si prevede espressamente la forma scritta (art. 21) e
la necessaria indicazione delle parti contraenti, della terra individua oggetto
di concessione, della durata, del tipo di uso, dei diritti e degli obblighi
delle parti, della responsabilità per inadempimento[41].
L’efficacia
del contratto si collega al momento della sua conclusione (art. 22) in forma
scritta. Non ha valore costitutivo, ma dichiarativo il certificato di diritto
di gestione rilasciato dalle competenti autorità (art. 23).
In
relazione alla possibilità di cedere il diritto di gestione da parte del
contraente concessionario, l’art. 24 stabilisce il divieto di modificare o
rescindere il contratto una volta ceduto il diritto di gestione. La sezione
quinta della legge, nel regolare la circolazione del diritto di gestione sui
fondi in concessione ribadisce al comma 2 dell’art. 33 il divieto di modificare
la destinazione d’uso prevista nel contratto di concessione e fissa come limite
di durata quello previsto nel contratto originario. Si prevede peraltro la
prelazioni dei membri della stessa collettività (art. 33-5).
Il diritto
di gestione dei fondi in concessione è incluso nel libro III della Legge sui
diritti reali dell’ottobre 2007 tra i diritti reali di godimento. Ad esso è
dedicato specificamente il capitolo XI, articoli 124-134, ma anche in altri
articoli della legge esso viene fatto oggetto di disposizioni diverse.
Secondo
l’art. 124 le organizzazioni economiche collettive di villaggio attuano un
sistema di gestione articolato in due livelli integrati, uno unitario, cioè con
gestione diretta da parte della collettività, uno decentrato fondato sul
sistema della concessione della gestione per famiglie. Lo stesso articolo
precisa, per altro, che si accede a quest’ultimo tipo di gestione in base alla natura
del suolo, quando si tratti di terra agricola destinata a coltivazione, di
foreste, di pascoli e di altri fondi ad uso agricolo, siano essi in proprietà
collettiva o in proprietà dello Stato ma in uso alle collettività.
Il
contenuto del diritto è così descritto nell’art. 125: «il titolare del diritto
di gestione gode … del diritto di possedere, di usare e di percepire i frutti
sui campi destinati alla coltivazione, sulle foreste, sui pascoli che gestisce
in concessione» ed inoltre ha: «il diritto a dedicarsi ad attività produttive
agricole come la coltivazione, la silvicoltura, l’allevamento e il pascolo di
bestiame».
La durata è
confermata in 30 anni per i fondi agricoli; tra 30 e 50 per il pascolo; tra 30
e 70 per le foreste (art. 126). Significativo per il problema della durata, che
la legge stabilisca che il concessionario, alla scadenza, prosegua la gestione
in accordo con le disposizioni dello Stato in materia.
La
prospettiva sistematica già ricordata e l’indicazione di contenuto del diritto
di gestione sui fondi in concessione in termini di «diritto di possedere, di
usare e di percepire i frutti sui campi coltivativi, sui fondi boschivi, sui
pascoli …» e di «diritto di dedicarsi ad attività produttive agricole»
(art. 125) evocano, al giurista abituato alle categorie proprie della
tradizione civilistica fondata dal diritto romano, una scelta di campo operata
dal legislatore cinese a favore dello schema giuridico degli iura in re
aliena. In particolare, suggestivo appare il rapporto che lega il contadino
che esercita la gestione agricola del fondo ed il fondo stesso, rapporto che
nella legge suddetta assume la connotazione di diritto reale di godimento su
cosa altrui, venendosi così esso ad affiancare ad altri diritti reali di
godimento che nella nostra tradizione sono stati costruiti appunto come iura
in re aliena.
È da
evidenziare innanzitutto l’angolo di visuale che tradisce la evidente
prospettiva proprietaria (dello Stato, della collettività o del privato) che nella
legge stessa trova unitaria espressione contenutistica nell’elenco
dell’articolo 39 (diritto di possedere, usare, percepire i frutti e diritto di
disporre). Nella nuova legge cinese sembra quindi prevalere un paradigma
proprietario coerente alla prospettiva del modello codificato nel Codice
Napoleone del 1804, nel quale l’art. 544, come è stato esattamente colto in
dottrina, non riesce a liberarsi da una duale lettura dell’istituto, da un lato
quella ereditata dal modello dell’età medievale, tutta costruita sulle utilitates
della res frugifera e, dall’altro lato, quella indotta dalla rottura con
lo schema dell’antico regime e tutta rivolta verso l’assolutezza del
dominio.
Il diritto
di gestione dei fondi in concessione, nella nuova legge cinese sui diritti
reali sembra calato in questa prospettiva, propria e caratterizzante un certo
momento della storia della nostra tradizione giuridica, una prospettiva che,
attraverso la tecnica dell’elenco, si fa portatrice di un modello
“proprietario” e ne diventa necessaria espressione in termini di differenza con
la proprietà per l’assenza del potere di disposizione del bene[42].
Arrestarsi
a questo dato, però, significherebbe tradire il senso e lo sforzo di una
lettura della legge cinese come calata in un rapporto di dialogo costruttivo
con il sistema giuridico romanistico. In primis, in quanto proprio la
netta divergenza che nel diritto di gestione dei fondi in concessione emerge in
relazione allo schema della titolarità delle terre in godimento rispetto ad
altri diritti di godimento su cosa altrui, deve già mettere in guardia da
facili e pericolosi accostamenti.
La
collettività titolare di queste terre, che come abbiamo visto, ne ha
rivendicato dal basso l’effettiva coltivazione con strumenti economici
alternativi allo sfruttamento collettivo, come appunto la gestione di essi in
concessione alle famiglie dei membri del villaggio, si pone come realtà, in
termini di c.d. “proprietà” collettiva, non semplicemente affiancata agli
schemi sia della “proprietà statale/pubblica” che della “proprietà privata”,
bensì come realtà probabilmente “altra” e non suscettibile di assimilazione. La
nostra tradizione giuridica, come abbiamo già sottolineato nel primo paragrafo,
ha spesso dovuto fare i conti con queste realtà alle quali non si adatta la
prospettiva del dominium e più in generale quella del “mio”. Per fare
alcuni esempi, a Roma antica, l’ager gentilicius e l’ager
compascuus; oggi, si potrebbe menzionare la problematica degli usi civici[43].
D’altra
parte, come abbiamo già sottolineato, quando per queste realtà e le altre, di
diversa struttura e funzione, nelle quali si venne affermando una titolarità
giuridica separata da un potere amplissimo esercitato dal singolo sul bene (l’ager
vectigalis del popolo o dei municipi o la c.d. proprietà provinciale),
emerse la necessità di dare un contenuto al potere del singolo sul bene,
l’unica alternativa si dimostrò quella di elencare i diversi poteri esercitati
sulla cosa. Si pensi ad esempio all’uti frui habere possidere sulle
terre provinciali, reso ancora da Gaio in termini di possessio vel
ususfructus (Gai. II.7)[44].
È quindi, a
mio avviso, necessario ponderare con attenzione la disciplina dell’istituto
cinese in esame, al fine di evidenziare profili di essa che, lasciando intuire
le vere istanze dal basso, da parte dei contadini che esercitano tale diritto
non solo per il sostentamento alimentare ma anche per la produzione in
eccedenza, possano permetterci di cogliere con maggiore concretezza la
struttura e la funzione di questo diritto. In tal modo, si potrà, a mio avviso,
con maggior senso realistico cogliere l’adeguatezza allo stesso dello schema
giuridico prescelto dal legislatore cinese per dargli veste in termini di ius
in re aliena.
Si potrebbe,
infatti, guardare al diritto di gestione sui fondi in concessione come diritto
che concretamente si è andato formando in Cina nello sfruttamento delle terre
in campagna non in termini di potere sulla cosa (e somma di contenuti limitati
rispetto alla proprietà), ma come accesso allo sfruttamento di una porzione
della terra comune in ragione della partecipazione del contadino alla comunità
che è titolare di quella terra.
Lo status
di contadino dell’organizzazione economica collettiva come condizione
necessaria per il primo tipo di concessione è sancito nell’art. 15 della Legge
sulla concessione di fondi dei villaggi[45]. D’altronde la decisione sulla conclusione della
concessione a lui è fatta, in prima istanza, con l’accordo dei 2/3
dell’assemblea dei contadini secondo il terzo comma dell’art. 18 della stessa
legge[46]. In sostanza, è l’insieme concreto dei contadini
che formano la comunità che decidono di accordare ad uno di loro lo
sfruttamento di una porzione di terra della collettività.
Pur
conservando vigorosamente l’indisponibilità delle terre in gestione alle
famiglie sia nelle leggi precedenti, sia in quella attuale, a fronte di istanze
di senso opposto da parte dei contadini, si riconosce nella legge come detto la
trasferibilità non della terra data in concessione, ma dei diritti connessi
alla concessione stessa. Al riguardo, ritengo significativa la prelazione
sancita a favore di altro contadino della stessa collettività nel quinto comma
dell’art. 33 della Legge del 2002 [47].
Che poi vi
sia concretamente nell’àmbito della cd. proprietà collettiva dei villaggi una
resistenza della situazione effettiva di sfruttamento emerge con chiarezza
nella Disposizioni sulla determinazione della proprietà e del diritto d’uso
sul suolo promulgata nel 1995 dall’Ufficio Nazionale
dell’Amministrazione del Suolo[48], dove nell’art. 20 si stabilisce espressamente
che: «per il suolo di proprietà collettiva di contadini in un villaggio, la
proprietà è determinata secondo il suolo che questa collettività attualmente
effettivamente sta usando».
L’effettiva
capacità di coltivazione sancisce il modus della terra destinata alla
titolarità della comunità.
Infine,
nell’Avviso relativo alla stabilizzazione e perfezionamento dei rapporti in
concessione del Consiglio degli Affari di Stato del 1995, in base al
quinto Parere del Ministero dell’Agricoltura, si impone che nella
concessione ‘esterna’ della gestione del fondo del villaggio il corrispettivo
sia fissato secondo le regole del mercato, mentre per la concessione dei fondi
ai contadini, esso non deve superare il 5 % del reddito netto individuale dei
contadini nell’anno precedente[49].
La fase
attuale sembra aver rafforzato il modello individuale di sfruttamento delle
terre comuni realizzato attraverso lo schema del diritto di gestione dei fondi
in concessione per famiglie. Evidentemente lo schema stesso spinge l’attenzione
dell’ordinamento dal titolare della terra coltivata (il villaggio) al
concessionario dello sfruttamento, concentrandosi sui poteri di quest’ultimo.
Non è casuale che le istanze provenienti dai contadini concessionari siano nel
senso di una sempre maggiore circolazione e liberalizzazione del potere da loro
esercitato e che invece sia interesse dello stato centrale conservare un minimo
di struttura resistente che renda non solo confermata la divisio tra
terre urbane e terre rustiche, ma soprattutto la resistenza del modello di
vischiosità sociale del rapporto con la terra da coltivare del ceto contadino.
Il punto
non è di poco conto, in quanto la conservazione della scissione della
titolarità della terra (pubblica o collettiva) rispetto alla sua effettiva
coltivazione da parte del nucleo familiare, vestito come diritto reale su cosa
altrui, conserva al potere centrale la possibilità di modificare la
destinazione della terra, anche a scapito degli interessi concreti dei
contadini[50].
L’istanza
contadina di trasformare queste terre in terre in proprietà individuale è già
iniziata da tempo e trova piena espressione nel «Manifesto della Terra»
dei contadini cinesi del 2007. Lo schema della proprietà individuale sembra
essere sentito dal ceto contadino come più adeguato a tutelare i suoi
interessi, rispetto alla proprietà pubblica ed anche alla c.d. proprietà
collettiva.
Questo
permette, con un po’ di azzardo, di ipotizzare possibili sviluppi della
questione. Sarà, infatti, interessante vedere se la dialettica politica e
sociale innestata dai rapporti sulla terra delle campagne, nei prossimi
decenni, modificherà le attuali configurazioni delle soluzioni normative. Da un
lato, infatti, si potrà verificare se lo schema della cd. proprietà collettiva
riuscirà a resistere alla forza centrifuga di una dialettica assorbente tra
proprietà pubblica e proprietà privata, e d’altro lato se il diritto di
gestione dei fondi in concessione per famiglie non spingerà inesorabilmente
verso la costruzione di una vera e propria forma di appartenenza individuale
agraria, erodendo sempre di più la attuale attrazione dello stesso nello schema
civilistico degli iura in re aliena.
Il diritto
romano e la sua tradizione hanno realizzato una complessa trama concettuale
delle forme di appartenenza, che dimostra una forte capacità di adattamento e
di resistenza alle esigenze di godimento, sfruttamento, accaparramento e
conservazione dei beni. Tale resistenza ha permesso di superare il poderoso
processo di selezione e semplificazione di tali schemi nella fase di
costruzione del diritto privato liberale nel XIX secolo. La centralità della
proprietà privata e la delimitazione legale dei diritti reali su cosa altrui
proprie della ideologia borghese, pur fondando un momento essenziale della
storia del diritto privato a tradizione romanistica e elemento di forte
condizionamento in materia dei Codici civili liberali, non ha impedito – grazie
anche ad una ripulitura concettuale degli schemi romani e di quelli medievali
realizzata dai romanisti e dagli storici del diritto soprattutto in Italia – di
poter attingere alla ricchezza e alla complessità di tale tradizione anche in
contesti giuridici nei quali forme di appartenenza pubblica o comunitaria hanno
condizionato, a loro volta, il diritto in essi elaborato.
Da questo
punto di vista, il sistema del diritto romano esprime la sua piena vitalità, da
un lato svelando la carica ideologica delle soluzioni di politica del diritto
attuate nei modelli codificati a base liberale in materia di forme di
appartenenza, e d’altro lato, arricchendosi di nuovi schemi giuridici in
materia attraverso l’apporto del diritto russo e del diritto cinese. Al
riguardo, la particolare centralità in tali paesi della proprietà pubblica e
della proprietà collettiva ribalta la normale prospettiva con la quale si
guarda ai diritti reali su cosa altrui nel diritto borghese, non più come
schemi da delimitare nella configurazione legale per difendere la centralità
della proprietà privata (come nell’ideologia del numerus clausus)[51],
ma al contrario come schemi individuali di appartenenza che servono a costruire
un equilibrio tra titolarità del bene alla comunità e godimento del bene stesso
da parte del privato. Ciò mi sembra dimostri in pieno l’attualità del sistema
romano e delle sue ulteriori potenzialità nella storia.
[Un evento culturale, in quanto ampiamente
pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente
anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di
questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dal
Comitato promotore del XXXVI Seminario internazionale di studi storici “Da Roma
alla Terza Roma” (organizzato dall’Unità
di ricerca ‘Giorgio La Pira’ del CNR
e dall’Istituto di Storia Russa dell’Accademia delle Scienze di Russia, con
la collaborazione della ‘Sapienza’
Università di Roma, sul tema: MIGRAZIONI, IMPERO E CITTÀ DA ROMA A
COSTANTINOPOLI A MOSCA) e dalla direzione di Diritto @ Storia]
[1] Vedi M. Kaser, Die Typen der römischen Bodenrechte in der späteren Republik, in Zeitschr. Sav.
Stift. 62, 1942, 1 ss.; Idem, Eigentum und Besitz im älteren römischen
Recht, Köln-Graz 1956, 228 ss.; G. Grosso,
Schemi giuridici e società nella storia
del diritto privato romano, Torino 1970, 146 ss.; A. Corbino, Schemi giuridici dell’appartenenza nell’esperienza romana arcaica,
in La proprietà e le proprietà, a
cura di E. Cortese, Milano 1988, 3 ss.; L. Capogrossi
Colognesi, “Dominium” e
“possessio” nell’Italia romana, in La
proprietà e le proprietà, cit., 141 ss.; M. Talamanca, Considerazioni
conclusive, in La proprietà e le
proprietà, cit., 183 ss. Con una forte ripulitura concettuale, vedi ora M.
Schermaier, “Dominus actuum suorum”. Die
willenstheoretische Begründung des Eigentums und das römische Recht, in ZSS 134, 2017, 49 ss.
[2] Programma del Partito nazionalsocialista dei lavoratori (1920), art. 19:
«Vogliamo la sostituzione del diritto romano, orientato verso un ordinamento
materialistico del mondo, con un comune diritto germanico».
[3] Sul punto vedi P.
Grossi, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, in La proprietà e le proprietà, cit., 205 ss.,
in particolare 270 ss. Il paradigma pandettistico della proprietà codificato
nel BGB fu sottoposto ad una interpretazione in chiave sociale negli anni
trenta da F. Wieacker, Wandlungen der Eigentumsverfassung
(Hamburg 1935), in Zivilistische
Schriften (1934-1942), Frankfurt am Main 2000, 9 ss., senza fondare tale
interpretazione nel diritto romano. D’altronde, la lettura fascista del modello
proprietario codificato in Italia nel 1865 seguendo il modello francese, spinge
alla considerazione valoriale della “funzione sociale” della proprietà
individuale; sul punto vedi P. Rescigno,
Introduzione al Codice civile,
Bari-Roma 1991, 8 s.; 101 ss. Cfr. ora, sul problema storico Th. Keiser, Eigentumsrecht in Nationalsozialismus und ‘Fascismo’, Tübingen
2005, 55 ss., 73 ss., 167 ss.
[4] Individualismo e diritto privato romano, in Annuario di diritto comparato e di studi
legislativi 1941; cito da ristampa Torino 1999, 21 ss.
[5] Vedi al riguardo
l’attenta lettura fattane da P. Catalano,
Populus Romanus Quirites, Torino
(1970) 1974, 120 ss.; 152 ss.; Idem,
Droit naturel, ‘ius Quiritium:
observations sur l’anti-individualisme de la conception romaine de la propriété,
in Le nuove leggi cinesi e la
codificazione. La legge sui diritti reali, Roma 2009, 121 ss., in relazione
al sintagma meum esse ex iure Quiritium
della legis actio sacramento in rem,
dove l’affermazione d’appartenenza della cosa è fondata sulla appartenenza alla
comunità di cives. Sul punto, lucide
precisazioni anche in A. Malenica,
L’idea di Marx sulla proprietà, in Index 16, 1988, 15 ss.
[6] P. Grossi, La proprietà e le proprietà, cit., 248-254.
[7] M. Montorzi, Diritto feudale nel basso medioevo, Torino 1991; Idem,
Processi istituzionali. Episodi di formalizzazione giuridica ed evenienze d’aggregazione
istituzionale attorno e oltre il feudo, Padova 2005.
[8] Per una
considerazione approfondita degli “usi civici” in confronto al paradigma
proprietario vedi U. Petronio, Usi e demani civici fra tradizione storica e
dogmatica giuridica, in La proprietà
e le proprietà, cit., 491 ss., in particolare 514 ss. In rapporto alla
proprietà pubblica ed alla c.d. proprietà collettiva vedi V. Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova 1983.
[9] Vedi su questi
problemi L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e signoria in Roma antica, I,
2a ed. Roma 1988; Idem, Cittadini e territorio, Roma 2000, 185
ss.
[10] Vedi supra nt. 8.
[11] Sed in provinciali solo placet plerisque solum religiosum
non fieri, quia in eo solo dominium populi Romani est vel Caesaris, nos autem
possessionem tantum vel usumfructum habere videmur ...
[12] Sulla recezione
del diritto romano nella sua versione borghese della Pandettistica tedesca del
XIX sec. nella Russia di fine Ottocento e primi decenni del Novecento, vedi M.
Avenarius, Rezeption des römischen Rechts in Rußland. Dmitrij Mejer, Nikolaj
Djuvernua und Isif Pokrovskij, Göttingen 2004. Si veda ora dello stesso
Autore, Fremde Traditionen des römischen
Rechts. Einfluß,
Wahrnehmung und Argument des ‘rimskoe pravo’ im russischen Zarenreich des 19.
Jahrhundert, Göttingen 2014.
[13] N.V. Dunaeva, Эволюция
правового
статуса
свободных сельских
обывателей
Российской
империи в XIX
в., Санкт-Петербу́рг 2011 (Diss.). Gli storici del diritto russo, dopo i contributi di Ia.N. Ščapov, Vizantiiskoe i iužnoslavjanskoe pravovoe nasledie na Rusi v XI-XIII vv, Moskva 1978; Idem, Rimskoe pravo na Rusi do XVI v., in Feodalizm v Rossii, Moskva 1987, 211-219, sono oggi meno orientati a negare un legame della tradizione giuridica russa con il diritto romano, superando lo scetticismo espresso da D.P. Hammer, Russia and the Roman Law, in The American Slavic and East European Review 16, 1957, 1-13 e da D.H. Kaiser, The Growth of the Law in Medieval Russia, Princeton
1980. Per tutti vedi I.A. Isaev,
Istoriia gosudarstva i prava Rossii,
3a ed., Moskva 2006, 11 ss. (diritto nell’antica Rus’ di Kiev); 32 ss. (periodo
di Noovgorod). Sul grado di influenza del diritto romano d’Oriente sulle
consuetudini russe e poi sulle prime fonti scritte, vedi ora F.J.M. Feldbrugge, Law in Medieval Russia, Leiden 2009, 59 ss. dove si accentua il
rapporto di resistenza e di influenza tra diritto consuetudinario della Rus’ di
Kiev, e il diritto romano-greco dell’impero romano d’Oriente. Il tema è oggetto
in Italia di un lungo ed approfondito esame della questione nella Collezione
“Da Roma alla Terza Roma” attiva dal 1981, sotto la direzione di P. Catalano e P. Siniscalco, dove fondamentali sono anche gli approfondimenti
del rapporto tra il diritto romano dell’Impero romano orientale e la Russia
degli Car’.
[14] Sulla nuova fase
post-socialista del diritto russo vedi G. Ajani,
Diritto dell’Europa Orientale, in Trattato di Diritto Comparato, dir. da
R. Sacco, Torino 1996, 264 ss.; Idem,
Il modello post-socialista, Torino 1999.
[15] Il che imporrebbe
di verificare in concreto la fondatezza della affermazione di Max Weber,
secondo cui «il capitalismo moderno prospera nello stesso modo, e presenta
anche caratteri economici essenzialmente simili, sotto ordinamenti giuridici
che considerati dal punto di vista tecnico-giuridico, posseggono norme e
istituzioni estremamente eterogenei. - ... - e divergono tra loro profondamente
anche negli stessi ultimi principi formali di struttura», M. Weber, Economia e società III. Sociologia del diritto, Milano 1981, 196.
Al riguardo, vedi L. Capogrossi Colognesi,
Le radici della modernità. Max Weber
1891-1909, 2a ed., Roma 1997, 100 ss., e 103 e nt. 27.
[16] Per una
riconsiderazione approfondita di questo ampio dibattito, anche in relazione
alle categorie concettuali del diritto russo prerivoluzionario, si veda G. Crespi Reghizzi, L’impresa nel diritto sovietico, Padova 1969, 249 ss.; ed ora G. Ajani, Diritto dell’Europa Orientale, cit., 281 ss.
[17] Una dettagliata
disamina si ha in G. Crespi Reghizzi,
L’impresa nel diritto sovietico,
cit., 249 ss., il quale sottolinea a 313-314 «Dall’analisi delle differenti
concezioni è emerso un diritto soggettivo nuovo, di diverso e variabile
contenuto, difficilmente inquadrabile nelle categorie romanistiche, ma che la communis opinio […] vuole
prevalentemente di natura reale e comunque a contenuto minore rispetto al
diritto di proprietà».
[18] A.V. Karass, Pravo gosudarstvennoi
sotsialisticheskoi sobstvemiosti v SSSR, Mokba 1954. Vedi G. Crespi Reghizzi, L’impresa nel diritto sovietico, cit., 295.
[19] Sul punto
fondamentale P. Catalano, Populus Romanus Quirites, cit., 151 ss.
che sviluppa intuizioni marxiane. GIUSTIFICARE
[20] Art. 8-2 Cost.
Fed. Rus.: «Nella Federazione Russa sono riconosciute e tutelate egualmente la
proprietà private, la proprietà statale, la proprietà comunale e altre forme di
proprietà». Art. 35 Cost. Fed. Rus.: «1. Il diritto di proprietà private è
tutelato attraverso la legge. 2. Tutti hanno il diritto di avere, possedere,
usare e disporre in proprietà un patrimonio individuale o in comune con altri.
3. Nessuno può essere espropriato del proprio patrimonio, salvo che per
sentenza di un tribunale. L’espropriazione per necessità statali può essere
realizzata a condizione del pagamento preventivo di un indennizzo di eguale
valore (del bene espropriato)». Sulla previsione costituzionale della tutela
della proprietà privata nella Federazione Russa, vedi F. Plagemann, Das Grundrecht Privateigentum, in A. Allenhöfer – F. Plagemann, Das Eigentum im Recht der Russischen Föderation, Berlin 2007, 11
ss. (senza, però, particolare sensibilità alle altre forme di proprietà
tutelate).
[21] Sull’origine
romana dello schema dello ius in re e
sulla sua cristallizzazione in età medievale come genus in termini di iura in
re aliena, vedi G. Pugliese, Diritti soggettivi b) Diritti reali, in Enc. del Dir., XII, 1964, 755 ss.; R. Feenstra, Les origins du ‘dominium utile’ chez les glossateurs (avec un appendice
concernant l’opinion des ultramontani), in Flores legum H.J. Scheltema oblati, Groningen 1971, 49 ss.; Idem, “Dominium” and “ius in re aliena”: The Origins of a Civil Law
Distinction, in New Perspectives in
the Roman Law of Property. Essays for Barry Nicholas, ed. by P. Birks,
Oxford 1989, 111 ss.; approfondendone il rapporto con la categoria medievale
del dominium utile, importante P. Grossi, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, cit., 248-254; Idem, “Dominia” e
“servitutes” (Invenzioni sistematiche del diritto comune in tema di servitù),
in Quaderni fiorentini 18, 1989, 331
ss. [ = Il dominio e le cose, Milano
1992, 57 ss.]; E. Cortese, Il diritto nella storia medievale II. Il
basso medioevo, Roma 1995, 172. Sul fondamento sostanziale della categoria
già nel diritto romano vedi G. Grosso,
Le servitù prediali nel diritto romano,
Torino 1969, 3; critico G. Pugliese,
op. ult. cit., 757-759. Qualora si
ammetta la presenza del concetto, già nel diritto romano, a prescindere dalla
ricorrenza alla terminologia del ius in
re aliena, si pone il problema delle ragioni della sua maturazione,
venendosi a porre in relazione ai profili di superamento del modello
potestativo (unitario o meno) in capo al pater
familias. Sullo schema del ius in rem
proprio della cultura giuridica maturata nel sistema di common law vedi G. Pugliese,
Diritti reali, cit., 756; R. Feenstra, “ominium” and “ius in re aliena”, cit., 111-112 e nt. 3.
[22] Статья
21.
Пожизненное
наследуемое
владение
земельными
участками: «1.
Право
пожизненного
наследуемого
владения
земельным
участком,
находящимся
в
государственной
или муниципальной
собственности,
приобретенное
гражданином
до введения в
действие
настоящего
Кодекса,
сохраняется.
Предоставление
земельных
участков
гражданам на
праве
пожизненного
наследуемого
владения после
введения в действие
настоящего
Кодекса не
допускается».
(Trad. ingl. Art. 21. Life-Time Inheritable Possession of Plots of Land: 1. The life-time
inheritable possession of state-owned or municipally-owned plot of land
acquired by a citizen before the entry into force of the present Code shall
continue to exist. No plots of land shall be granted to citizens by the right
of life-time inheritable possession after the entry into force of the present
Code).
[23] Sulla nascita
della terminologia vedi supra nt. 19.
Per la nascita sostanziale di tale schema giuridico nella nostra tradizione e
l’importanza che le servitù prediali urbane ebbero su di essa, vedi per tutti,
G. Grosso, Le servitù prediali nel diritto romano, cit., 49 ss.; Idem, Schemi
giuridici e società nella storia del diritto privato romano, Torino 1970,
243 ss.; F. Gallo, Interpretazione e formazione consuetudinaria
del diritto, Torino 1993 (edizione completata), in particolare 107 ss.
Sull’importanza delle servitù prediali urbane per la rottura del modello
“potestativo”, sebbene esso non debba necessariamente essere considerato come
unitario, vedi anche L. Capogrossi
Colognesi, La struttura della
proprietà e la formazione dei “iura praediorum” nell’età repubblicana, II,
Milano 1976, in particolare 271 ss. La possibilità di un tale collegamento,
evidenziato in dottrina, potrebbe perdere molta della sua forza, qualora si
aderisca alla tesi di A. Corbino, Ricerche sulla configurazione originaria
delle servitù, I, Milano 1981; Idem,
Servitù a) Diritto romano, in Enc. del Dir., XLII, 1990, 243 ss., che
critica la differenziazione, sul piano della struttura giuridica degli antichi iter via actus aquaeductus come res mancipi, tra questi e i primi iura praediorum urbanorum.
[24] Sul rapporto tra
Diritto romano, sistema giuridico romanistico e Cina vedi AA.VV., Diritto cinese e sistema giuridico
romanistico. Contributi, a cura di L. Formichella - G. Terracina - E. Toti,
Torino 2005, in particolare Jiang Ping,
Il diritto romano nella Repubblica
Popolare Cinese, 3-12; Idem, Il risorgere dello spirito del diritto
romano in Cina, 49-56; S. Schipani,
Il diritto romano in Cina, 57-68; Mi Jian, Diritto cinese e diritto romano, 13-28; Huang Feng, Un
incontro storico tra due grandi tradizioni di cultura giuridica, 45-48. Sui
cambiamenti del diritto cinese dal 1978 ad oggi, cfr. G. Ajani - A. Serafino
- M. Timoteo, Diritto dell’Asia
orientale, in Trattato di diritto comparato, diretto
da R. Sacco, Milano 2007, 299 ss.
[25] Vedi supra nt. 14.
[26] Vedi supra nt. 19.
[27] In Italia, hanno prestato
attenzione ai problemi qui richiamati R. Bertinelli,
Considerazioni sul diritto di proprietà
nella repubblica Popolare Cinese, in Mondo
cinese 72, 1990, 15 ss.; G. Crespi
Reghizzi, Cina 2003:
l’Osservatorio del giurista, in Mondo
cinese 117, 2004, 18 ss.; Idem,
Proprietà e diritti reali in Cina, in
Mondo cinese 126, 2006, 26 ss.; A. Serafino, In tema di diritto di proprietà in Cina (i progetti della legge sui
diritti reali), in Riv. di Diritto
civile 2006, I, 549 ss.; Idem,
in Diritto dell’Asia centrale, cit.,
308 ss.; S. Grano, Il problema della proprietà della terra in
Cina, in Mondo cinese 130, 2007,
27 ss.; Eadem, “La Legge sui diritti reali”: Cina e Italia,
due realtà a confronto, in Mondo
cinese 134, 2008, 29 ss.; AA.VV., Le nuove
leggi cinesi e la codificazione: la legge sui diritti reali, a cura di S.
Schipani – G. Terracina, Roma 2009.
[28] Sul punto vedi M. Timoteo, Il diritto d’uso su fondi per costruzione, in AA.VV., Le nuove leggi cinesi e la codificazione: la
legge sui diritti reali, cit., 185 ss.
[29] Si veda Su Haopeng, Misura di sicurezza sociale? O diritto reale di godimento? Sul diritto
di uso su fondo a destinazione abitativa nell’ordinamento cinese, in
AA.VV., Le nuove leggi cinesi e la
codificazione: la legge sui diritti reali, cit., 171 ss.
[30] Mi si permetta di
richiamare quanto ho avuto modo di approfondire in Diritto di gestione dei fondi in concessione e sfruttamento della terra
in Cina, in AA.VV., Le nuove leggi
cinesi e la codificazione: la legge sui diritti reali, cit., 193 ss.
[31] Sull’importanza
dell’accadimento vedi ora Liu Xiaobao,
Zhongguo nongmin de tudi xuanyan, in Zheng Ming 1, (363), gennaio 2008, 21-23
[= Il “Manifesto della terra” dei
contadini cinesi, trad. it. in Mondo
cinese 134, 2008, 77-84].
[32]
«I fondi in proprietà delle collettività contadine sono gestiti in concessione
dai membri delle organizzazioni economiche delle stesse, che vi svolgono
attività produttive relative ad agricoltura, silvicoltura, pastorizia e pesca.
La concessione di un fondo dura 30 anni. Il concedente e il titolare del
diritto di gestione devono stipulare un contratto di concessione per
determinare i diritti e i doveri delle due parti. I contadini aventi il diritto
di gestione i fondi in concessione hanno il dovere di tutelare e ragionevolmente
usare i fondi, secondo la destinazione di uso stipulata nel contratto di
concessione. Il diritto del contadino di gestione dei fondi in concessione è
protetto dalle leggi».
[33] Vedine il testo in
traduzione officiale in inglese in http://www.gov.cn/english/2005-10/09/content_179389.htm.
[34] «The State applies the contractual management system in
respect of land in rural areas. Land contract in rural areas shall take the
form of household contract within the collective economic organizations in the
countryside ...».
[35] art. 3: «Land contract in rural areas
shall take the form of household contract within the collective economic
organizations in the countryside, while such land in rural areas as barren
mountains, gullies, hills and beaches, which are not suited to the form of
household contract, may be contracted in such forms as bid invitation, auction
and public consultation».
[36] art.
4: «The State
protects, in accordance with law, the long-term stability of the relationship of
land contract in rural areas. After the land in rural areas is contracted, the
nature of ownership of the land shall remain unchanged. The contracted land may
not be purchased or sold».
[37] art.
7: «In land
contract in rural areas, the principles of openness, fairness and impartiality
shall be adhered to and the relationship of interests among the State, the
collective and the individual shall be correctly handled».
[38] art.
10: «The State
protects the circulation of the right to land contractual management, which is
effected according to law, on a voluntary basis and with compensation».
[39] art.
17: «The
contractor shall have the following obligations: 1) keeping or using the land
for agricultural purposes, and refraining from using it for non-agricultural
development; 2) protecting and rationally using the land in accordance with
law, and refraining from causing permanent damage to the land; and 3) other obligations provided for in
laws and administrative rules and regulations».
[40] art.
18: «The
following principles shall be abided by in the contracting of land: (1)
-...-; (2)
democratic consultation, fairness and equitableness; (3) in accordance with the
provisions of Article 12 of this Law, the contracting plan shall, according to
law, be subject to consent by not less than two-thirds of the members of the
villagers assembly of the collective economic organization concerned or of the
villagers' representatives; ... ».
[41] Per la diversa
percezione nel diritto cinese dei contratti degli elementi essenziali del contratto,
ed in particolare della necessaria previsione in essi della responsabilità
contrattuale, mi si permetta di rinviare a quanto ho avuto modo di notare in Buona fede e diritto cinese, in Diritto romano, diritto cinese e
codificazione del diritto civile, Pechino 2008, 409 ss. (in cinese); ed ora
in Precisazioni romanistiche su “hetong”
e “chengshixinyong”, in AA.VV., Il
libro e la bilancia. Studi in onore
Francesco Castro, Roma 2010, II, 153-171.
[42] Prospettiva,
quella degli elenchi, presente già nei Principi
generali del Codice civile del 1986, all’art. 71 «E’ diritto del proprietario di possedere, usare, trarre frutti e
disporre del bene»; vedi al riguardo R. Bertinelli,
Considerazioni sul diritto di proprietà,
cit., 24-27.
[43] Vedi supra nn. 8-9.
[44] Sed in provinciali solo placet plerisque solum religiosum
non fieri, quia in eo solo dominium populi Romani est vel Caesaris, nos autem
possessionem tantum vel usumfructum habere videmur…
[45]
Trad. ingl.: art. 15: «The party undertaking
the contracting by households shall be a farmer of the economic organizations
of the said collectives».
[46]
Trad. ingl.: art. 18-3: «The projects for
the contracting shall, in accordance with the provisions stipulated in art. 12
of the present Law, be agreed to by at least two-thirds of the members of the
villagers assembly or of the representatives of villagers of the said
collective economic organizations».
[47]
Trad. ingl.: art. 33-5: «Under the same
condition members of the economic organizations of the said collective shall be
entitled the priority».
[48] Queding tudi suoyou quanhe shiyongquan
de ruogan guiding, vd. testo in http://www.diji.com.cn/
NewsDetail.aspx?ArticleID=463.
[49] «-...- Salvo i
progetti di concessione professionale e concessione a gara, quali le
concessioni di industrie, di frutteti, di vivai di pesci, dei ‘quattro incolti’
(i.e. montagna, burrone, collina, spiaggia), per gli altri fondi -...- il
corrispettivo di concessione deve essere controllato rigorosamente al di sotto
del 5% del reddito netto individuale dei singoli contadini nell’anno passato»; 关于稳定和完善土地承包关系的意见 (guanyu wending he wanshan tudi chengbao
guanxi de yijian), consultabile in http://www.gov.cn/zhengce/content/2016-10/19/content_5121672.htm .
[50] Sul problema
dell’espropriazione delle terre agricole vedi Chr.
Heurling, Ruling the Chinese Countryside: Right
Consciousness, Collective Action and Property Rights, Washington 2006, 6
ss.
[51] Come è stato
giustamente sottolineato l’ideologia che sostiene il codice francese non è
quella che pone il principio di tipicità dei diritti reali parziari nella legge
cinese; si veda Liu Kaixiang, Riflessioni sul principio di tipicità dei
diritti reali, in AA.VV., Le nuove
leggi cinesi e la codificazione: la legge sui diritti reali, cit., 139 ss.;
L. Capogrossi Colognesi, Intervento nella discussione su “numero
chiuso” dei diritti reali e sulle forme di tutela della collettività, in
AA.VV., Le nuove leggi cinesi e la
codificazione: la legge sui diritti reali, cit., 163 ss.